No.

tw: morte/autolesionismo/disturbi alimentari/stupro. Ma finisce bene e non c’è pulp

Da ragazzina anelavo alle catastrofi.

Sono stata più male che bene nella vita, tra malattie invisibili genetiche ed epigenetiche: allergica senza terapie sintomatiche che funzionassero (e che sono l’unica cosa che ho adesso di simile a una cura, perché le allergie in sé restano lì, pronte a farti ammazzare dal tuo stesso sistema immunitario se commetti la leggerezza di non controllare cosa mangi o cosa respiri), anoressica, ridotta a un bonsai da fasce senza nome che solo una volta sbendate e gettate via ho imparato a chiamare con le spinose declinazioni dell’abuso narcisistico. Come un bonsai, tuttavia, non sembravo morta, non mi sentivo del tutto tale, solo troppo piccola per diventare un albero vero, e ciònonostante ancora troppo ingombrante rispetto alle bende.

Mia nonna materna, la persona con cui ho passato più tempo da piccola, sembrava aver sempre saputo chi era e chi sarebbe stata – sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale, affamata prima dal fascismo, poi dalla pubertà e infine dal binge eating, insegnante, dantista. Mi pareva che il suo essere dritta, tanta, solida e reale fosse strettamente connesso alle catastrofi, e speravo, senza osare confessarlo neppure per iscritto sui diari segreti, che un giorno avrebbero reso nitida anche me, permettendomi di esistere, di essere davvero utile o quantomeno di avere un buon motivo per spezzarmi, perché mi era stato proibito di piangere davanti a qualcuno, dunque piangevo solamente da sola, in bagno, o sotto a piogge talmente torrenziali da potermi nascondere e annullare in loro.

E così è stato davvero, diverse volte.

La prima fu il terremoto del 2012, avevo diciassette anni, il ragazzo con cui uscivo mi aveva lasciata senza spiegazioni sensate, dopo aver manifestato prima una possessività soffocante e poi una gelosia sotterranea e stizzita per il tempo che dedicavo alla mia Cleide, e amare una bambina piccola come se l’avessi fatta con le mie carni, preoccuparmi per i suoi dolori, non era un motivo sufficiente per stare male io, tantomeno essere lasciata da uno che mi piaceva in modo tiepido perché troppo assorbita da un amore più forte.

Mi sono preoccupata, naturalmente, per le persone care, ho aiutato un’amica ad evacuare casa, tranquillizzato mia madre, sono rimasta angosciata dalla moltitudine di quelle terremotate che mi erano ignote, ho studiato sodo, perché il mio palazzo antisismico non mi dava ragioni per non farlo, ho perso il sonno, corretta, inappuntabile.

Ma una parte di me provava un finora inconfessato sollievo: il mondo intorno a me tremava fortissimo e cadeva in pezzi, dunque avevo il permesso di farlo anch’io.

La seconda volta avevo diciannove anni, ero riuscita a troncare la relazione sentimentale più ambivalente che avessi mai avuto: gli volevo bene ma non lo amavo, lui mi adorava, era ossessionato da me, ma non è mai riuscito a volermi bene o essere onesto con me, era il mio porto sicuro, le grandi mani a sostenermi, durante viaggi psichedelici ed esplorazioni nel verde, le sue stesse mani mi facevano sentire una preda a letto, priva di voce quanto di scelta. Lo avevo lasciato per qualcun altro, lui mi scriveva quanto stesse male, io stavo andando con le mie cugine a fare il bagno nel mare mosso, il mio preferito. Non era un motivo sufficiente per stare male. Le onde sono diventate violente, ci siamo attardate un minuto di troppo e abbiamo perso il controllo, non fosse stato per i sette uomini che sono venuti a prenderci saremmo morte.

Sapevo che eravamo state stupide, ciònonostante ero consumata dall’euforia. Ero viva, ogni mia cellula respirava, rischiare di morire non intenzionalmente mi aveva dato, finalmente, il permesso di voler vivere, di scacciare del tutto il proposito infantile incastonato, quasi sepolto, in un angolo dietro un mio orecchio: vedere tutta l’arte che avrei voluto, e poi morire, perché non sarei stata mai arte, non sarei stata mai amata, neppure da me.

Da quel momento ho cominciato ad amarmi e lasciarmi amare, ma è stato un processo talmente lento che rischiavo di morire di fame, le bende pronte in ogni momento a stritolarmi se a quei pochi centimetri di crescita, a quella manciata di foglie in più, avessi osato aggiungere altro.

Ogni tanto moriva qualcuno -un gatto, una compagna di liceo, un’insegnante, un parente- e io mi affamavo, non abbastanza da morirne, abbastanza da negarmi il permesso di rompere tutto, i sistemi e le bende, di costruire barricate o esondare.

L’ultima volta è stata il Covid, che ha fermato tutto, per chiunque, tutto ciò che fosse vita, radice o consuetudine, le certezze belle come quelle brutte.

“Torneremo alla normalità”, diceva qualcuno, qualcun altro invece guardava quella normalità improvvisamente separata, cristallizzata, dissezionata, e realizzava quanto di morboso ci fosse dentro. Io facevo parte del secondo schieramento.

Il Covid mi ha insegnato a dire “no” senza sentire la mia voce già esile dissolversi, senza venire cancellata assieme ai miei obblighi, i miei ruoli e le mie gabbie. Mi ha insegnato a lasciare senza disgregarmi, a manifestare la perdita e la fragilità.

Mi ha insegnato ad avere paura per me stessa, non solo per le persone care, a piangere e tremare anche sotto al sole, a chiedere aiuto.

Non è stata solo la terapia, non è stata solo l’arte, non è stato solo l’amore, è stato un arazzo composto da questi elementi e altri ancora: la perdita, i corticosteroidi dosati nel modo giusto, le trasformazioni altrui, la mia curiosità infinita.

Sono ancora allergica, non lo sono più in modo invalidante. Non sono più anoressica, non ho un grammo di body dismorphia, il mio corpo cresce e cambia, sia perché finalmente il tempo scorre in lui sia per l’inchiostro che ho legato a lui, anziché relegarlo alla penna, adesso ho sulla pelle le lentiggini che ho sempre sognato e la viola che sono sempre stata.

Il mese scorso mi è successa una cosa incredibile: un ragazzo che ho conosciuto da pochi mesi, con cui ho condiviso confidenze ma non scritti che spiegassero mio passato, ha scoperto che non sono sempre stata euforica e gli si sono dilatati gli occhi. Era sconvolto, fosse pure per un attimo. Del disturbo che ho incarnato per talmente tanto tempo da credere che l’avrei fatto per sempre, non resta più nemmeno il sospetto, se non sono io a parlarne come parlo dell’apparecchio ai denti che non porto più da lustri. Insospettabile, concluso.

Ho imparato a giocare, a piangere, a cedere il controllo volontariamente anziché a perderlo per cause immense e ingestibili, a essere frivola, a ficcare tutto il viso in un pane ancora caldo, a divertirmi facendo cose in cui non sono esperta, a dare al mondo la possibilità di rifiutarmi anche se non performo, e dunque di accettarmi proprio perché non performo. Tutto questo dopo una catastrofe, ma in assenza di catastrofi, senza giustificazioni esterne.

In mezzo a questa fanciullezza nietzcheana, è stata scagliata un’altra catastrofe, coi rituali atavici delle catastrofi: le voci costanti, le notizie divorate bulimicamente o rifiutate in blocco diventando isteric3 per minuzie, la pornografia dell’orrore – fiumi che esondano, strade che diventano fiumi, case che diventano frane, immagini su immagini -, il tempo che si dilata, il gelo che invade corpo e mente, le paure irrazionali, il Comune che chiude tutte le porte dopo che sono scappati i buoi – non posso entrare nei parchi che conosco come me stessa, ora sono allagati, pericolosi, sempre che ci siano ancora, il mio lungofiume so per certo che non esiste più.

Dentro di me nulla sospira di sollievo, nulla sussurra “finalmente”, nulla si distende furtivo, tutto grida “no” come se lo avessi sempre gridato, se avessi sempre saputo rifiutare, arginare, usare le mani per spingere via anziché per arrendermi.

“Non mi serve, questo dolore”.

Non lo avevo mai pensato prima, non mi ero mai permessa di aggrapparmi alla mia serenità, di rivendicarla, di piangere cose piccole come un albero ritorto che è sempre stato lì, su cui mi arrampicavo a sei anni e mi sono fatta autoritratti a ventotto, di arrabbiarmi con le fonti di dolore collaterali: non serve a nessuno, non è giusto per nessuno, e non serve neanche a me, c’è spazio per entrambi i tipi di rabbia.

Non mi serve sperare che la mia matrigna mi chiami dopo aver visto l’ennesimo telegiornale nazionale che parla di come anche la zona in cui vivo sia in pericolo, non mi serve sentirmi ridicola perché davvero speravo ancora lo facesse, chiedermi a cosa serva questo amore, non mi serve fare la strada più lunga e grigia per andare da casa al lavoro, cercare di ricordarmi dove abitano le persone che conosco per sapere se stanno bene.

Non mi serve, ma c’è comunque, e in un modo che mai avrei immaginato di vivere: gratuito, assoluto, sincero.

Ho esposto le mie fotografie sincere e le mie lacrime sincere, senza preoccuparmi che potessero non andar bene a nessuno.

Qualcuno mi ha abbracciata, e anche se erano perlopiù strette virtuali, dato che dobbiamo muoverci il meno possibile, ne ho sentito tutto il calore.

Abbraccerò tutt3 quant3.

Autore: ventfille

Questo è un archivio di racconti e poesie, o lo sarà quando avrò imparato a padroneggiarlo (avete presente Talete, che camminava con gli occhi rivolti al cielo e quindi cadde nel pozzo? Il mio pozzo è informatico). Ho un volto e carne viva, ma non qui.

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