Cecità e gargoyle

A Plectrude crescevano solo gli occhi.

Amélie Nothomb, “Dizionario dei nomi propri”.

Per metà della mia vita, credo, mi sono portata Dismorfeo abbarbicato alle retine come un gargoyle alla sua cattedrale.

Dico “credo” perché essere una millennial significa aver trascorso l’infanzia senza la cartina di tornasole di smartphone, fotocamere istantanee e social network, ero una bambina analogica il cui malessere scivolava nel tempo come olio sull’acqua, l’impressione puntuale che avevo di me non veniva mai fissata, come quella di ogni membro della mia classe. Eravamo creature ondivaghe a cui non veniva chiesto di definirci.

Quando ho messo piede sui social network assieme alle prime spedizioni di coloni puberali mi sono scoperta incapace di immortalarmi senza venire invasa dall’orrore, ma non ricordo un inizio o un prima: potrebbe essersi insinuato in me nella pubertà, o potrebbe aver semplicemente fatto stridere gli artigli sulle mie guglie, mentre prima sonnecchiava annoiato.

Forse è arrivato la prima volta in cui sono stata forzata a mangiare cose che detestavo, e ho vomitato tutto ciò che percepivo come violenza. Forse la prima volta in cui ho assorbito, con occhi e orecchie affamatissimi, l’angoscia con cui ogni membro della mia famiglia si relazionava al cibo, o forse è entrato di soppiatto assieme alle prime parole legate al mio ingombro: sono nata inattesa e troppo lunga rispetto al mio peso, e mi è stato ricordato da quando ne ho memoria.

Quante fogne si scoperchiano di fronte alle bambine, ignorando la portata della loro fame?

Dismorfeo sguazza pigramente in molte di esse.

Mi ha resa una cieca inconsapevole, perché in molti campi la mia vista funzionava benissimo: si offuscava solo nei pressi del mio corpo, lo distorceva fino a tentare di annullarlo. Era più facile, persino più razionale per me credere di essere semplicemente fatta male, piuttosto che affetta da cecità selettiva. Me ne sono resa conto solo quando ho cominciato a vedermi.

E ora che mi vedo completamente, che mi compiaccio del mezzelfo che vedo allo specchio o della ninfa o strega nelle foto, la violenza con cui avrei voluto scarnificare ogni mio tratto mi sembra assurda.

Ogni mattina esulto per il fatto che Dismorfeo non vive più con me.

I demoni però, come le allergie, non sono mai soli. Sembra che nelle sue stanze ci sia un altro inquilino, il cui nome non viene mai pronunciato.

Diversamente dalla prima volta, tuttavia, so montare la guardia, riconoscere i segnali, datare il suo arrivo.

È successo il mese scorso, dopo il doloroso epilogo di un pellegrinaggio d’amore durato ventisette anni: la persona che mi ha fatta e che ho amato per prima nel tempo (o meglio, una delle due) mi ha lasciata di nuovo, stavolta non per un breve periodo, parzialmente o affibbiando a me il compito di essere colei che lascia, ma gettandomi indietro come una cartaccia, e ha usato una morte come spinta propulsiva per farlo, assieme a disgustosi aggettivi possessivi: “la mia morte, la mia famiglia, il mio dolore”. Era tutto suo, dunque niente era mio.

E io non ho più l’energia per continuare a riprendermela.

L’ho fatto da sempre, ed è anche per questo che Dismorfeo aveva trovato una nicchia in me: femminista arrabbiata come sono, mi sono progressivamente ridotta per piacere a un uomo, e questo rendeva instabile tutto il castello della mia etica.

Sono stata una bambina poco capricciosa perché non aveva pazienza per i capricci, poi ho cercato di non essere proprio più bambina, perché era proprio la mia infanzia il problema, il fatto che sprizzassi vita e proteste, e bisogno di attenzioni che una persona in una relazione tossica (com’era lui, e come in modo diverso è stata mia madre) non poteva darmi. Dunque dovevo cambiare io, fare tagli al bilancio, rinunciare a pezzi di me assieme a pezzi di lui, che era un po’ la stessa cosa. Se mi fossi ridotta abbastanza mi avrebbe amata, solo che la linea dell'”abbastanza” si spostava continuamente, e l’amore che provavo io è diventato ambivalente.

Volevo tagliarmi la gobba sul naso perché era antiestetica e virile, o perché era simile alla sua, a problemi respiratori costosi, a parentele talmente non volute dalla controparte che ho dovuto imparare a non volerle nemmeno io?

Non posso dirlo con esattezza, posso solo dire che ora mi piace il mio naso ed essere grata per questo.

Ma dopo l’ultima violenta rinuncia qualcosa si è lacerato in me, e qualcos’altro è entrato da quel varco e si è acquattato nella nicchia vuota di Dismorfeo, ora ho un altro gargoyle che mi sussurra nelle orecchie un veleno diverso.

Se una persona talmente vicina, talmente antica, talmente me dalla forma di un pensiero a quella delle orecchie non è in grado di amarmi o di trattarmi come una persona, mi sussurra, se non ha voglia nemmeno di condividere un lutto con me o di farmi la più blanda delle condoglianze, di riconoscere un grammo del mio dolore, cosa mi garantisce che chiunque altro voglia fare qualsiasi altra cosa con me?

Me lo sussurra riguardo a ciò che lego a lui e anche a ciò che (per fortuna, dato che non faccio parte di un pantheon pre-umano) con lui non c’entra nulla: questa persona, qualunque persona, vorrà davvero venire a cena con me? Vorrà sapere come sto? Mi vorrà bene? Vorrà tutelarmi? Vorrà scrivermi, vorrà abbracciarmi, vorrà avere qualunque forma di contatto fisico? Vorrà stare con me ad una festa? Vorrà vedere una mostra assieme? Vorrà fare una passeggiata? Vorrà un regalo da me? Vorrà fotografarmi, vorrà posare assieme a me, vorrà fare sesso con me?

E così devo chiedere loro di ripetermelo, mentre il nuovo gargoyle senza nome mi sussurra che risponderanno di no.

Non riesco a darmi risposte razionali legate a ciò che le persone in questione hanno fatto o detto in precedenza, perché lui mi ha detto di amarmi prima di lasciarmi indietro. E solo il ventisettesimo Natale mi ha quasi sputato addosso, senza però guardarmi negli occhi, che tutta la faccenda dei regali gli fa schifo. Prepararsi per l’occasione, scegliere il dono che farà felice una persona specifica, trovare la carta adatta alla forma del dono, osservare ogni sua reazione mentre lo scarta. Io lo adoro. Un altro dei miei modi di amare gettato via, dopo il contatto fisico e la cura dell’altro. Cosa rimane, tra le forme del mio amore, che non possa ancora ricevere un rifiuto?

Lo chiedo alle persone a me più care sentendomi sprofondare nell’orrore finché non mi hanno detto sì. Sì, ti amo, ti voglio bene, sei bella. Sì, l’erba è sotto ai piedi e il cielo è intorno a te, e sì, sta per piovere. Dai miei occhi piove spesso, e so che è un miglioramento rispetto a quando non pioveva mai perché tagliavo persino le lacrime, so che ogni pianto ed esposizione è una riappropriazione di ciò che provo, ma lo odio lo stesso.

Perché se non sono quella che sono diventata a cinque anni, quella che asciuga le lacrime altrui e ha il necessario nella borsa, quella che raccoglie l’orrore altrui e disinfetta la ferita con un bacio, allora chi sono? Posso ricevere un amore che non sia condizionato?

Non lo faccio con le persone che conosco a malapena, perché il nuovo gargoyle sembra conoscermi meglio di quanto mi conoscano loro, e mi sussurra che non è il caso di ribaltare la situazione: loro stanno bene in mezzo alla folla, io ai margini. Non le saluto se non di sfuggita, perché se chiedessi loro qualunque cosa (un abbraccio, uno scampolo di tempo, un drink di sfuggita) non potrebbero che dire di no, e io sto ancora ricostruendo la parete sfondata dal rifiuto che ho ricevuto al posto delle condoglianze.

Un “no” senza parole, senza azione, senza volto.

Un punto cieco che sussurra veleno.

Credo che scrivere sia un modo per lanciargli una rete contro, e cominciare a tirarlo in secca.

Autore: ventfille

Questo è un archivio di racconti e poesie, o lo sarà quando avrò imparato a padroneggiarlo (avete presente Talete, che camminava con gli occhi rivolti al cielo e quindi cadde nel pozzo? Il mio pozzo è informatico). Ho un volto e carne viva, ma non qui.

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