Gaia

I “perché?” di Gaia scorrono sotto alle mie gambe spossate come chilometri di terreno in una maratona. I muscoli si stancano, il terreno mai, sussegue a sé stesso in una gioiosa inconsapevolezza.

Non posso passare la staffetta a nessuno, nella nostra solitudine forzata è stato facile abbattere i ruoli di genere, forse anche i generi stessi, ma le nostre capacità hanno dato forma a nuovi ruoli: non più “papà” e “mamma” (non nel senso tradizionale dei termini: è lui a raccontare le fiabe e lavare i piatti, sono io a scacciare gli insetti dalla stanza e andare a pesca), ma la persona che dà vita alle macchine e quella che non ha mai imparato cosa sia un proxy, e ama tutto ciò che è analogico.

Io non posso fare ogni cosa, lui nemmeno.

Queste mancanze complementari mi tengono ancorata al tempo.

Anche la fatica di spiegare le macerie a Gaia è a suo modo piacevole, mi lascia addosso il corrispettivo mentale dell’acido lattico dopo un pomeriggio in palestra. Mi tiene ancorata allo spazio, costruisco mappe attraverso i suoi occhi.

Il terrore si stempera sempre più nel sollievo.

Per moltissimo tempo i miei pensieri hanno girato intorno all’idea di una figlia. Se fosse stato un figlio l’amerei comunque, pensavo, ma una figlia sarebbe più facile. I nostri corpi avrebbero subìto e raccontato le stesse storie, avrebbero trovato riparo nel dialogo. I problemi legati al pene di mio figlio sarebbero stati ingigantiti dall’imbarazzo.

Avevo avuto bambini e bambine molto presto, non fatti da me ma affidati a me fin da quando avrei dovuto essere una bambina io stessa. Parenti, o clienti. Facevo previsioni in base a ciò che vivevo con loro, avevo paura e desiderio che la sensazione che a volte mi dava la minore di loro, quella che il cuore mi esplodesse di amore per lei, mi accompagnasse ogni giorno.

Ho segnato su un quaderno le sue prime parole, fatto da interprete allo sconquasso del suo primo linguaggio, le ho cambiato i pannolini e tinto i capelli, l’ho amata di un amore totale e ho cercato di fare in modo che non somigliasse a me.

Pensavo che somigliare a me sarebbe stato una condanna per entrambe, mia figlia e me: per lei nascere allergica come me, autolesionista come me, triste come me, per me sapere di esserne la causa. Come avremmo fatto a perdonarci?

Negli anni in cui ho imparato ad amarmi, a riesumare con fini pennelli archeologici lo scheletro lucente sotto a quel buio, il mondo è diventato più ostile. Prima era solo in bilico, ma in quegli anni ha iniziato a precipitare.

Le pandemie hanno sottratto l’adolescenza alla mia Cleide, l’hanno fatta sbattere rabbiosamente contro le pareti di una gabbia sempre più stretta, e io ero felice di non avere una figlia a cui potessero sottrarre l’infanzia.

Quando il mondo ha mosso i primi passi verso la guarigione, sono arrivati nuovi stermini degli uomini. Ce n’erano già, ma mi compiacevo di essere nata nella zona in cui erano proibiti, speravo di poter mettere su un giardino biologico e coltivarci una figlia. Gli scontri tra capi di stato nazisti hanno fatto deflagrare anche i giardini, e io ho deciso che non avrei fatto nascere l’ennesima vittima.

Quando è esplosa la prima atomica, avevo già costruito un bunker intorno al mio corpo.

Ogni parte della socialità che conoscevo, ogni cosa che coltivavo e persino quelle che volevo decostruire, si è stemperata in anni di fughe disordinate e di sistemazioni di fortuna. Il mio cuore non si espandeva più, non aveva nessuno per cui espandersi. A volte qualcuno c’era, ma eravamo individui così rarefatti e disadattati da poterci offrire solo i reciproci spigoli, e a volte un po’ di aiuto pratico. Mi ero armata, perciò non c’erano stupri, le rapine non avevano più senso di esistere, ma non c’era nemmeno affetto.

La curiosità era l’unico filo che impediva al mio cuore di precipitare.

Rubai automobili e biciclette a nessuno, risi del paradosso e mi misi ad esplorare. A volte cavalcavo, andavo abbastanza veloce: tra tutte le mie perdite, c’era stata quella della paura di cadere. Piantavo le tende in castelli vecchi di secoli, musei e paesaggi selvaggi, lasciavo che la bellezza mi premesse ogni parte del corpo, me ne ubriacavo.

L’abbandono aveva lasciato dipinti, statue e cascate a mia completa disposizione.

“Cos’altro è rimasto?” era la domanda ricorrente che mi spingeva a ripartire.

Per lo stesso caso acquerellato che mi aveva spinta a conoscerlo da ragazzina, lo ritrovai. Non pensavo che ci fosse ancora, lui non pensava che ci fossi io, ma aveva deciso di cercare i nostri vecchi luoghi per ricordarmi. Sapeva che erano stati luoghi felici, non sapeva che non esistevano più.

Il mio cuore gli rivolse uno spiraglio senza spigoli.

Per anni abbiamo visitato tutti i luoghi d’arte che, prima del Collasso, non avevamo abbastanza soldi per raggiungere, lui dava vita alle macchine, io restauravo i cimeli e pulivo i pesci che avremmo cucinato assieme, ho sempre trovato stranamente riposante la brutalità di quell’atto.

Ovunque fossimo passati diventava abitabile, e la bellezza che eravamo in grado di produrre ci manteneva vivi. Slegati, però, come foglie al vento.

Fu in un’isola senza storia e senza nome che tutto il mio corpo venne scosso.

Che strano: avevo pensato per anni a una figlia, prima da sola e poi col mio amore ritrovato, eppure da qualche anno avevamo dimenticato che fosse possibile, come se anche la prima infanzia fosse andata in disuso assieme a tutto il resto.

Mi aveva conosciuta quando stavo male, dunque io avevo familiarità con la nausea e lui col prendersi cura del mio corpo esausto. Mi baciava via i sensi di colpa, perché avrei voluto aiutarlo a mettere insieme una casa definitiva e non ero fisicamente in grado di fare quasi nulla. Studiammo assieme manuali sulle ecografie, questo sì, ma fu lui a rimettere in funzione i macchinari necessari mentre dormivo con la faccia sui libri.

Non riusciva, però, a mettere un freno definitivo ai miei pensieri, che mi assalivano a ondate assieme alle nausee.

E se somiglia a me? Pensavo di nuovo, allergica come me, miope come me, rachitica come sono stata? Se avrà il mio palato troppo stretto, prima dell’ortodonzia? Non posso fornirle le cure mediche che ho avuto io, a malapena riesco a garantirle qualche controllo generico. Il suo corpo diventerà la sua gabbia, si farà del male come me.

La felice aspettativa del padre mi avrebbe fatta andare nel panico, se non fosse stata identica alla mia.

Perché paradossalmente, anche mentre il mio stomaco si contraeva, il mio cuore aveva ripreso a dilatarsi.

Spiego a Gaia il perché di quelle scale quadrate, nere e scomode: quando sono state costruite non bisognava salirle, le racconto, salivano loro e tu stavi ferma, così se avevi troppe cose in mano o male alle gambe potevi riposare.

Le spiego il perché di quegli alberi dalle radici incastrate in modo improbabile: un tempo questo era un supermercato, un posto costruito dagli umani per loro stessi. Erano ammesse solo piante piccole e graziose, che non rubassero tanto spazio, a intervalli regolari gli umani le accorciavano come capelli o facevano a pezzi quelle più grosse. Ma la Terra è delle piante e, senza venire disturbate, le piante se la sono ripresa e sono cresciute.

“Ma stanno scomode”.

“Le liberiamo?”

Le si illuminano gli occhi all’istante, piccoli laghi di felicità: il colore indefinibile (adesso è lo stesso verde delle foglie che contempla, questa mattina avrei giurato fosse grigio, ieri sera era color cioccolata) è il mio, il modo di muoverli e farli brillare dall’interno è di suo padre. Abbiamo imparato a fare controlli oculistici di base l’anno scorso, ha dieci diottrie, come lui.

In generale c’è poco di me nell’aspetto di Gaia.

Gli stessi occhi color bosco e tempesta, le stesse membra lunghe e sottili, ma il suo corpo ha una morbidezza sana che solo dopo anni di sport e una gravidanza ha raggiunto anche il mio. Ha la mascella e la mandibola ben allineate di suo padre, lo stesso sciame impazzito di ricci scuri, persino gli stessi nei sulle orecchie e ai lati del naso.

È tanto bella che vorrei mangiarla.

Estraggo lunghi chiodi e un martello dalla cassetta degli attrezzi e smantello pezzo per pezzo la pavimentazione intorno alle radici, Gaia prende le mattonelle che ho divelto e le ammucchia in un angolo.

Non è ciò che eravamo venute a fare, teoricamente dovremmo esaminare i negozi e catalogare eventuali oggetti utili mentre suo padre riattiva i quadri elettrici, ma non importa. Capita spesso che decidiamo di fare una cosa e cambiamo priorità in corso d’opera.

Prima del Collasso questo genere di cose mi dava sui nervi, mi sentivo come se un impegno non portato a termine o un appuntamento slittato costituissero una perdita irreparabile e in un certo senso era così: ciò che non ci si teneva stretto era perso, ci restava in mano solo la colpa. Sembrava che la società intera si basasse sulle delusioni e sulle colpe.

Mentre liberiamo le piante spiego a Gaia come si chiamano, lei ne sceglie una preferita, mi chiede quale sia la mia.

Ci penso qualche secondo, ammetto che non ne ho una.

“Perché?”

“A volte le cose sono belle in modi diversi e non si riesce a sceglierne una che ci piace più delle altre”.

“E il tuo nome preferito?”

“Elettra”.

Nessuna esitazione, stavolta.

“Perché?”

Spiego a Gaia che “Elettra” deriva dall’elettro, la parola che definiva ogni materiale che splendesse, per questo anche l’ambra si chiamava così, e si chiama allo stesso modo l’energia che fa risplendere le lampade ogni volta che si vuole. Le racconto la storia di Elettra, figlia di Agamennone, e di Elektra Natchios, innamorata e nemica di Daredevil. Le racconto che, quando ancora non ero pronta per averla, ho chiamato una gatta così, e illuminava tutta la casa.

A quel punto ci fermiamo, io tiro fuori panini e acqua dallo zaino, lei rimugina.

Aggrotta la fronte esattamente come suo padre. La lascio seguire il filo, mangiamo.

“Mamma?”

“Sì?”

“Perché non mi chiamo Elettra anche io?”

“Perché c’erano troppe Elettre ormai. Gaia è il nome che migliaia di anni fa si dava alla Terra, e ne esiste solo una. Come te”.

Mi chiede la storia di Gaia, gliela racconto. Mi viene in mente, con una fitta al cuore, che neanche mio padre e mia nonna erano bravi a raccontarmi fiabe, perciò mi raccontavano la mitologia greco-romana. Anche io avevo sempre fame di storie, ne chiedevo a chiunque sapesse leggere finché non sono diventata abbastanza grande da andarne a caccia da sola.

Da quando Gaia è nata, ogni tanto riemerge un ricordo d’infanzia, come un messaggio in bottiglia rigidamente sigillato e buttato nel mare. Non è stata una bella infanzia, ed era prima del Collasso, quindi la mia mente ha imbottigliato tutto quanto per alleggerire il carico, i ricordi belli assieme a quelli brutti.

“Se non ti piace, però, puoi cambiarlo”.

È una decisione che abbiamo preso subito: i nomi propri appartengono a chi li porta, non abbiamo il diritto di scegliere l’identità altrui. È piccola, ma deve saperlo.

La minuscola fronte si aggrotta di nuovo, poi gradualmente si distende, torna a sorridere fino agli occhi.

“Mi piace. ‘Elettra’ è bello, ma ‘Gaia’ è più bello. Però mi piace che posso decidere. Adesso è davvero mio, prima non ero sicura!”

Ha cinque anni, penso. Chi ha pensieri così a cinque anni?

Un’ altra bottiglia riemerge dai flutti.

Io.

Alla sua età ho passato una settimana a chiedermi se ciò che vivevo fosse reale, dato che non potevo uscire dalla mia testa per dare un’occhiata. L’impotenza mi devastava.

È cominciato tutto così: prima del dolore, c’era la precocità. La mia attenzione era divorante, i miei pensieri inarrestabili, se il sentiero che stavano percorrendo finiva non si fermavano con lui, proseguivano a lato, si facevano tortuosi. Mi nutrivo di qualsiasi cosa: storie, meccanismi degli oggetti, ricordi, la minima intonazione e angoscia altrui.

Non potermi spegnere metteva le persone adulte a disagio e lo percepivo dettagliatamente; perciò, mi convincevo che qualcosa nella mia testa non andasse, perché le mie reazioni ed emozioni erano sbagliate, il mio modo di essere presente era sbagliato; dunque, doveva esserci qualcosa di contorto alla base.

C’era semplicemente molto spazio, e avevo lasciato che si riempisse con le cose sbagliate perché c’era poco altro con cui riempirlo.

Somiglia a me realizzo, mentre lei corre intorno agli alberi liberati e ride, la testa piena del lavoro svolto, delle storie e del suo nome.

Funziona come me. Ed è meravigliosa.

Autore: ventfille

Questo è un archivio di racconti e poesie, o lo sarà quando avrò imparato a padroneggiarlo (avete presente Talete, che camminava con gli occhi rivolti al cielo e quindi cadde nel pozzo? Il mio pozzo è informatico). Ho un volto e carne viva, ma non qui.

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