Euphoria

Penelope,
sono di nuovo io.
Pensavo di aver concluso, ma il Covid mi ha inchiodata a letto e fatto percepire tutta la mia solitudine (essere in quarantena assieme al resto del mondo è diverso dall’esserlo da sola, mentre il resto del mondo folleggia per strada) e la mia fragilità. Sono precipitata nell’abisso delle elementari, delle prime crisi allergiche martellanti e incomprensibili, della fragilità polmonare e dell’avere quattro sensi solamente.
Ho avuto il Covid assieme a mia nonna e sono stata peggio di lei, più esausta, più erosa.
Ho guardato “Euphoria” sentendomi pizzicare il cuore a intervalli irregolari, quando il personaggio di Rue mi ricordava te.
Mi spuntavano sorrisi come muscoli involontari.
Ti voglio un bene incongruente, una missiva senza indirizzo: non c’è più la persona a cui voglio bene, c’è una borghese queerfobica che non conosco, i nostri comuni amici non capiscono né te né me, a malapena ci sono terze o quarte persone collaterali a cui poter parlare di questo senza sentirmi pazza. Eppure io ti ricordo e il sorriso spunta.

Non si tratta di desiderio quanto di voglia di farti scudo, di tenerti la mano in qualunque studio medico tu debba frequentare, di soffiarti via le lacrime mentre dormi.
Mi rendo conto a posteriori che è cominciata quella volta che siamo uscite assieme ufficialmente, avrebbe dovuto essere un’occasione formale ma eravamo entrambe nervose, cosí tu hai fumato una canna prima e io ho tracannato vodka durante, atteggiandomi a ramponiera quando non ero altro che naufraga.
Hai iniziato a raccontarmi aneddoti casuali su di te, era un racconto sconnesso e ingenuo, nervoso, di cui mi ha folgorata l’inconsapevole filo condottore: persone semisconosciute ti trattavano di merda e tu ti fidavi comunque. Sapevi perdonare e darti immediatamente con un trasporto da bambina, mentre io sapevo solo innalzare mura e torrioni di sarcasmo. Io sono demiromantica ma sono giunta a questa consapevolezza molto tardi, all’epoca sapevo solo che c’era qualcosa in me di divergente, cauto e gelido, che sapevo a malapena spiegare e che nessuno voleva capire, e che solo due persone erano riuscite a sciogliere.
Uno era un amico, quello che poi sarebbe diventato l’amore della mia vita, l’altra era la prima persona che mi avesse mai fatto dilatare il cuore, quando lei aveva due mesi e io undici anni. “Ho una fanciulla dai capelli d’oro, Cleide diletta, per tutta la Lidia non la darei”: questi versi millenari erano (sono tuttora, anche se si è tinta le chiome bionde come me alla sua età) la misura dell’amore che ci ha unite.

In quel momento il desiderio intorbidiva tutto, eppure il mio cuore ha perso un battito perché, troppo fatta per sostenere le maschere, somigliavi moltissimo a lei, anche se Cleide aveva sette anni e tu diciassette.

Ho pensato a te quando lei si è ferita la prima volta e ho realizzato che era diventata troppo grande per poterla inglobare tra le mie gambe e le mie braccia come l’albume di un uovo fa col tuorlo, troppo grande per farle scudo da ogni parte, per mangiarle il pancino di baci. Ho pensato a te quando mi sono resa conto che, se tu non mi avessi aperto la porta, io non sarei potuta entrare.

Penso a te quando Rue Bennett sbatte contro alberi, automobili e garages con la bicicletta quando è ubriaca, eppure si fida ancora della sua bici, più di quanto sia disposta a confidare nella macchina di qualcun altro.

Penso a te quando Rue si affida a una Jules appena conosciuta, e penso a come sembra che Jules sia distante quando in realtà è vicinissima ma paralizzata dal terrore. Non è mai stata abbastanza, pensa, come potrà dunque questa persona guardarla ancora in quel modo quando l’avrà osservata da vicino? Come si fa a non annegare nella tenerezza?

A parte l’amore della mia vita sei stata la prima frequentazione tenera che ho avuto, prima la sessualità era legata a doppio filo col dolore, con le difficoltà di traduzione, col peso soffocante delle aspettative maschili. Volevano levigarmi, controllarmi, mettermi alla prova, nessuno mai mi aveva guardata con lo stesso amore acritico con cui mi guardava Cleide, a cui ho cambiato il pannolino fino a due anni, dato da mangiare fino a tre, fatto da interprete quando parlava lo strano miscuglio semantico delle persone bilingui, Cleide che a sette mi faceva sentire un totem anche quando mi sentivo un rifiuto.

Penso a te quando Rue tocca il fondo, riemerge a malapena e riesce ancora a guardare in faccia i parenti, a chiedere scusa senza strozzarsi dall’imbarazzo, quando con un sorriso birichino ironizza sulla mole immensa di lavoro che le resta da fare.
Quando stavi come Rue, l’hai fatto anche tu: “la dottoressa mi ha detto che dobbiamo ricostruire la mia autostima. Beh, fatta quella siamo a posto!”
È quasi una chimera, l’autostima, io ho dovuto essere presente in tre libri e una mostra per avere stima anche solo del mio corpo (per non parlare dell’amore ricevuto, della psicanalisi, del percorso che ho fatto io stessa), eppure sorridevi come se fosse vicina, e non ho potuto fare a meno di sorridere assieme a te.
Eri un disastro ed eri contagiosa, e adesso che ho imparato a non temere il contagio, a stare a galla nella tenerezza e a definirmi, adesso che so di non essere storta e che il mio affetto è comunque amore anche se non è romantico, anche se non è più sessuale, standardizzato, finalizzato, tu non sei più disposta a riceverlo. E non perché ero paralizzata, hai sempre saputo aspettare che mi sciogliessi, sei stata mia amica per anni, dopo la fatica di essermi stata amante. Ti veniva naturale, ci ritagliavamo un angolino ai margini di qualunque cosa esigesse la nostra partecipazione, calavi la maschera, emettevi un respiro profondo, tornavi bambina. Oppure mi invitavi a casa nonostante il mio imbarazzo (ho paura delle famiglie altrui perché con la mia non ha mai funzionato, paura di essere di troppo, un’ospite sgradita) e mi facevi notare tutti i piccoli segnali che rischiavano di sfuggirmi: che gli animali domestici non davano confidenza alle altre persone come a me, che tua madre ammirava la mia linea, che tuo fratello aveva paura di donare il sangue ma farmi domande sulla mia esperienza con l’Avis lo faceva stare meglio.

Semplicemente un giorno ti sei allacciata la maschera più stretta, hai pensato fosse indispensabile per essere presentabile e creduto che io fossi una minaccia perché te l’avrei slegata. Tessi e disfi il sudario di qualcun altro, qualcuno che non ti conosce come ti conosco io, perché tu stessa hai impedito che accadesse, perché temi che non ti amerebbe se non rispettassi il tuo ruolo, se non fossi la ragazza che si aspetta, senza passato e senza mancanze.

Hai fatta tua la diffidenza di cui mi sto spogliando.

Autore: ventfille

Questo è un archivio di racconti e poesie, o lo sarà quando avrò imparato a padroneggiarlo (avete presente Talete, che camminava con gli occhi rivolti al cielo e quindi cadde nel pozzo? Il mio pozzo è informatico). Ho un volto e carne viva, ma non qui.

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