Lettera a Penelope

(Rivolta Pride)

Mi rendo conto di quanto sia socialmente discutibile soffrire per una persona che non è più nella tua vita da anni e nel tuo letto da altri ancora, perché la norma sociale è dimenticare sia i sentimenti sia le fattezze. Ogni cosa va in prescrizione.


Io però, forse per compensare la mia scarsa memoria geografica e burocratica, in questi ambiti non dimentico mai niente, posso solo cambiare modo di soffrire.
Non mi manchi più, non ti voglio più bene, non ti voglio più accanto – e meno male, perché accanto non ti ho: tu sei scappata dalla stalla e io ho chiuso la porta per impedirti di rientrare se davvero non lo vuoi, perché ogni volta che dicevi in giro “mi spiace che io e lei ci siamo allontanate, la voglio chiamare” e poi non chiamavi mi si contraeva il cuore nel petto. Tuttavia mi hai cancellata, e non lo hai fatto perché avessimo litigato o io ti avessi ostacolata o non fossi stata supportiva nei tuoi confronti, lo hai fatto perché il tuo nuovo personaggio non prevedeva alcuna macchia del tuo passato, e io ero una di quelle.

Uno stile di vita malsano, relazioni con persone pericolose, referti medici difficili da spiegare, lacerazioni dolorose ed essere stata con una ragazza: era tutto sullo stesso piano per te, e cancellando queste cose ti sei aggiudicata un posto nella parte giusta della società, quella che non ha bisogno di mendicare un pietoso disegno di legge per essere picchiata, insultata, licenziata e stuprata un po’ meno, che non ha bisogno di etichette per definirsi o di rivendicare la propria sessualità con orgoglio perché il suo modo di essere è norma e canone. In quel genere di narrazione, ogni Penelope sta a casa in attesa di Odisseo e anche se lui è mediocre, se viaggia a lungo e la tradisce, anche se non le sa stare accanto e lei non gli basta, è comunque il partito migliore possibile. La storia non parla di ninfe collaterali, non per lei, almeno.

La cosa peggiore era che conoscevo sulla mia pelle i motivi per cui l’hai fatto, anche se la mia scelta è stata opposta alla tua.
Io non dimentico mai niente. Non dimentico gli sguardi degli uomini, i sorrisi viscidi, le voci grette, i tentativi d’intromissione nella nostra intimità come fosse un feticcio a loro esclusivo beneficio, mentre la coppia eterosessuale accanto a noi veniva lasciata in pace. Ricordo che, prima e dopo di te, a volte non si sono limitati a guardare o a fare domande e proposte fuori luogo, ci sono state mani ruvide e fotografie senza consenso a sfregarmi la pelle. Ringraziavo persino che fosse soltanto la mia.
Ricordo le amiche che hanno smesso di frequentarmi da sole o spogliarsi di fronte a me da quando ho detto loro “mi piace una ragazza ma tranquilla, non sei tu”, come se l’amica che si divertivano a prendere in braccio fosse improvvisamente diventata un temibile predatore sessuale, quella che abbassava lo sguardo con imbarazzo misto a disgusto quando parlavo delle mie cotte per qualcuno che non fosse un uomo, i parenti che decidevano che non era vero, quelli che speravano che guarissimo, io e tutte le altre persone malate. Ricordo la sensazione di essere colpevole fino a prova contraria, mentre un uomo era innocente fino a prova contraria, e spesso anche dopo.

Ognuna di noi ha dovuto contrattare la propria pace, io ho scelto la perdita a patto di rimanere me stessa, tu hai vinto, ma a patto di abbandonare me. Dopo tutta la leggerezza del nostro affetto, non hai esitato a rendermi una zavorra.
Ti ho odiata perché la tua vittoria si fondava sulla mia sepoltura.

O forse la cosa peggiore era che, da quando hai fatto questo nel mondo esterno, ho visto accadere un fenomeno parallelo nella mia testa: non eri più una mia amica, non più un nome, un soprannome, una descrizione perspicua di passioni, interessi e dei piccoli vezzi che conoscevo come le mie tasche, eri semplicemente, nella mia articolazione incredula, la mia ex. Sei diventata un segno di censura, una sagoma di carta sbiadita identica a quella che avevi fatto di me.

Una delle cose più soddisfacenti della psicanalisi, però, è che permette di parlare di cose vecchie per un’ora intera senza sentirsi dire dall’altra persona frasi come “ma ancora? Lascia andare”, anzi t’incoraggia a farlo.
“Mi parli di lei”, ha chiesto la rapsoda delle psichi qualche settimana fa. In realtà lo ha chiesto in modo meno sintetico, ha fatto piccole domande come spinte e le mie labbra hanno partorito una storia di carne e sangue, non di carta, non di censura. O almeno, non solo.
C’era del bello in te, tutto quello che volevo aver scordato, e c’era stato del dolore dopo ma, mi ha detto, il colpo che hai sparato non era diretto a me. Io non sono stata altro che una vittima collaterale di un proiettile diretto a te stessa, e c’era una mano ruvida intorno al tuo polso, quella stessa mano che pensavo avesse profanato solo me.
Quando mi ha aiutata a capirlo, il mio risentimento si è trasformata in un tipo diverso di dolore: sconforto, lutto, pietà.

Perché tu non hai vinto.
Sei seduta in un posto non tuo, tremando al pensiero di essere scoperta, temendo che persino l’alleata che ho sempre cercato di essere ti tradisca col suo essere fuori luogo, e al tempo stesso temendo di chiamarmi, perché del mio sporco, nonostante gli strati di vernice che ci hai messo sopra, t’importa.
Tu non hai vinto.
Hai represso una parte di te stessa per stare dove stai, per piacere a chi piaci, ed era una parte bella, spontanea, fluida e brillante, era non solo ciò che sei stata ma anche ciò che saresti potuta essere.
Se tu avessi vinto non sbiadiresti nell’attesa dei comodi di Odisseo ma faresti anche i tuoi, e starebbe a lui scegliere se starti accanto in un modo migliore o sostituirti con un manichino.
Se tu avessi vinto, ieri saresti stata in piazza con me. Forse saresti stata lí fisicamente, ti avrei presentato le persone di cui sto diventando amica, come ti ho sempre presentato coloro che amo.
Forse invece saresti stata a casa, ma ci sarebbe stato comunque un filo di parole tra me e te, saresti stata tra le persone a cui scrivevo e registravo eccitata di come quella piazza era calda e tesa di rabbia e irriverenza, di come c’era spazio per ogni realtà ed emozione, per le lacrime e la danza, per gli interventi e per gli abbracci.
A un certo punto, nella piazza che ti avrei mostrato come se ci fossi stata anche tu, una ragazza fragile e forte ha detto che nonostante tutto, nonostante i politici ghignanti sulle nostre tombe, “non hanno vinto loro e non abbiamo perso noi”.

Avresti potuto essere tra noi, ma ti sei mutilata abbastanza da essere dei loro.
Mi dispiace davvero.

Autore: ventfille

Questo è un archivio di racconti e poesie, o lo sarà quando avrò imparato a padroneggiarlo (avete presente Talete, che camminava con gli occhi rivolti al cielo e quindi cadde nel pozzo? Il mio pozzo è informatico). Ho un volto e carne viva, ma non qui.

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